lunedì 2 giugno 2025

Indicazioni Nazionali scuola: una riflessione critica

 


Con l’aggiornamento delle Indicazioni Nazionali per la scuola primaria, il dibattito sull’identità della scuola pubblica italiana torna sotto i riflettori. Se alcuni interventi didattici appaiono del tutto coerenti con la missione educativa — come il consolidamento dello studio della grammatica o del corsivo, già presenti nel curricolo — altre novità sollevano legittime preoccupazioni. Tra queste, spicca l’inserimento esplicito della lettura della Bibbia come parte del percorso scolastico.


L’inserimento della Bibbia come testo di lettura obbligatoria nella scuola primaria rischia di snaturare il ruolo laico e pluralista dell’istruzione pubblica. Non si tratta qui di negare l’importanza storica, culturale o letteraria dei testi biblici, ma di chiedersi: perché la Bibbia e non anche il Corano, il Talmud, i testi vedici o altre fonti spirituali che pure hanno plasmato il pensiero e le civiltà? In un contesto sempre più multiculturale, proporre un testo religioso specifico rischia di essere percepito non come occasione di studio critico, ma come affermazione identitaria di una visione confessionale del sapere. Una scuola che si vuole inclusiva non può permettersi di privilegiare un patrimonio spirituale rispetto ad altri, né tantomeno trasformare un testo religioso in oggetto di lettura per bambini che si trovano, a quell’età, in una fase delicata dello sviluppo cognitivo e identitario.


L’età della scuola primaria è caratterizzata da un forte bisogno di concretezza, esperienze dirette, sviluppo del pensiero logico e della capacità narrativa. La lettura della Bibbia, per quanto adattata, presenta contenuti complessi, simbolici e spesso violenti, che necessitano di un contesto ermeneutico maturo. Non basta edulcorare i testi per renderli adatti: si rischia o di tradirne il significato profondo, o di esporre i bambini a una lettura superficiale, passiva, che li mette di fronte a narrazioni arcaiche senza gli strumenti adeguati per comprenderle criticamente. Il rischio è di trasformare un’operazione culturale in una trasmissione dogmatica, cosa che la scuola pubblica ha il dovere costituzionale di evitare.


C’è poi un aspetto politico e simbolico che non può essere trascurato. L’inserimento della Bibbia nel curriculum scolastico rappresenta un precedente che apre la porta a future ingerenze ideologiche nei programmi ministeriali. La scuola pubblica, per definizione, deve mantenere una neutralità rispetto alle religioni, proprio per tutelare la libertà di pensiero e la convivenza tra culture. Questa scelta rischia invece di mettere in discussione l’equilibrio faticosamente raggiunto tra educazione religiosa — affidata all’insegnamento facoltativo della religione cattolica — e formazione culturale, che dovrebbe essere improntata a criteri laici, scientifici e critici.


Se l’intento è quello di avvicinare i bambini alla grande tradizione narrativa, letteraria e simbolica dell’umanità, esistono alternative più coerenti e rispettose della pluralità: una proposta di letture mitologiche, racconti epici di diverse culture, fiabe tradizionali, e magari una introduzione comparata ai miti e alle cosmogonie del mondo. In questo modo si alimenterebbe il pensiero simbolico e la curiosità per l’altro senza cadere in una gerarchizzazione culturale.


La scuola ha il compito di formare cittadini liberi, consapevoli, aperti al mondo. L’inserimento della Bibbia come testo di lettura obbligatoria nella scuola primaria rischia di trasformare un’istituzione laica in uno strumento di normalizzazione culturale. Non è un passo verso l’inclusione, ma verso la riduzione della complessità culturale a un’unica matrice, rischiando di tradire lo spirito della Costituzione italiana e i principi pedagogici su cui si fonda la scuola pubblica. La cultura non si impone: si costruisce insieme, in dialogo e nel rispetto delle differenze.


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