mercoledì 28 maggio 2025

Lacrime taciute: il fallimento di una società che non sa amare

 



Ogni volta che una donna viene uccisa da un uomo che diceva di amarla, il Paese si risveglia di colpo, solo per riaddormentarsi poco dopo. Un’altra candela accesa, un altro nome inciso sulla pietra, un altro minuto di silenzio che copre anni di rumore, di grida ignorate, di segnali non raccolti. L’ultimo femminicidio non è solo un fatto di cronaca: è l’ennesima pagina strappata dal libro dell’umanità, che ci lascia tra le mani un fallimento collettivo.

Nel momento in cui il Parlamento approva un decreto sicurezza che inasprisce le pene, fingendo che la giustizia coincida con la vendetta, dobbiamo chiederci se davvero vogliamo continuare a recitare questa parte. Le pene più dure non impediscono gli omicidi se il male si è già radicato nei pensieri, nelle relazioni, nelle case. Serve una rivoluzione più profonda: culturale, educativa, interiore.

L’educazione affettiva che non c’è

Abbiamo smesso di insegnare ai ragazzi cosa significa amare, rispettare, perdere. A scuola si studiano le guerre e le formule matematiche, ma non si parla mai di relazioni, di consenso, di emozioni. Nessuno spiega che la fine di un amore non è la fine della vita, che il rifiuto non è un’umiliazione, ma un diritto. Cresciamo giovani anaffettivi, incapaci di tollerare la frustrazione, convinti che l’altro sia un’estensione del proprio ego, e non un essere umano con desideri autonomi.

Un’educazione affettiva nelle scuole non è una favola progressista: è una necessità civile. Parlarne non serve a “femminilizzare” gli uomini, ma a umanizzarli. Serve a rompere quel cortocircuito tra emozioni e violenza, tra possesso e amore malato.

Genitori smarriti

Il fallimento affettivo spesso comincia prima della scuola, tra le mura domestiche. In famiglie dove il dialogo è scarso, dove i sentimenti si esprimono a monosillabi o si affidano a uno smartphone acceso per distrarre, e dove i ruoli educativi si sfaldano sotto il peso della stanchezza, dell’ansia, o semplicemente dell’incapacità di affrontare l’intimità emotiva.

I genitori di oggi non sono peggiori: sono più soli. Più spesso lasciati senza una comunità, senza tempo, senza strumenti. Devono crescere figli in un mondo che cambia velocemente, senza che nessuno abbia mai insegnato loro come gestire la rabbia, la frustrazione, la vulnerabilità. Molti si rifugiano nel modello che conoscono: l’autoritarismo del passato o la permissività del presente. Ma entrambi falliscono quando si tratta di trasmettere empatia, equilibrio e rispetto.

In alcune case, i figli vedono il padre come figura distante o dominante, che alza la voce per farsi ascoltare, ma non parla mai davvero. In altre, madri lasciate sole a tenere insieme tutto, che pur di evitare il conflitto assecondano, giustificano, assolvono. Così si cresce in un terreno fragile: si impara che chi urla ha ragione, che l’amore può ferire, che chiedere scusa è una debolezza.

E poi ci sono i genitori digitali, presenti solo a metà, con un occhio sul figlio e l’altro su uno schermo. Con i figli che chiedono attenzione e ricevono risposte automatiche, che cercano un confronto e trovano un muro fatto di “più tardi” e “non ora”. Non si costruisce affetto così. E quando arriva l’adolescenza, è tardi per colmare quel vuoto affettivo: i figli cercano altrove modelli da seguire, anche se tossici.

Non è colpa individuale: è un fallimento sistemico. Abbiamo abbandonato le famiglie, pensando che l’amore bastasse da solo. Ma amare non è sufficiente, se non si sa come farlo bene. E oggi più che mai, essere genitori richiede formazione, supporto, ascolto e coraggio.

Per crescere figli capaci di amare senza possedere, bisogna educare anche i grandi. Perché non si può insegnare a gestire le emozioni che non si è mai imparato a riconoscere.

Lo specchio che non vogliamo guardare

Il problema non è la legge che manca: è la cultura che non cambia. È una società che colpevolizza le vittime, che sminuisce i segnali, che riduce tutto a “rapporti burrascosi” o “gelosie”. È il linguaggio dei media, che titola “delitto passionale” anziché “omicidio maschilista”. È il silenzio dei vicini, la complicità degli amici, l’indifferenza di chi dice: “Sono affari loro”.

Ogni donna uccisa è una sconfitta non solo per chi ha perso la vita, ma per tutti noi che abbiamo permesso che accadesse.

Ricostruire, non punire

Se vogliamo cambiare davvero, serve una strategia che non si limiti a colpire quando è troppo tardi. Serve educazione affettiva obbligatoria nelle scuole, centri di ascolto capillari, formazione per insegnanti e genitori, risorse vere per i consultori, linguaggi nuovi sui media.

Perché l’alternativa è questa: continuare a piangere, ad accendere candele, a inasprire pene su cadaveri già freddi.

E allora diciamolo con chiarezza: non abbiamo bisogno di più carcere, abbiamo bisogno di più coscienza.



Nessun commento:

Posta un commento