lunedì 9 giugno 2025

Disinteresse politico, violenza giovanile e incomprensione delle notizie: i sintomi di una crisi culturale

 


Il disinteresse politico, l’esplosione della violenza giovanile e la crescente incapacità di comprendere testi e notizie sono fenomeni che raccontano una crisi profonda, radicata non solo nei giovani, ma in tutta la società. Quando si parla di astensionismo, di sfiducia verso le istituzioni, spesso si indica il mondo giovanile come il più disilluso e disinteressato. Ma la verità è che ormai anche tra le fasce adulte, specie nella generazione dei trentenni, quarantenni e cinquantenni, il voto e la partecipazione politica sono percepiti come gesti inutili, svuotati di significato. I dati parlano chiaro: alle ultime tornate elettorali, l’astensione ha toccato punte altissime proprio tra i cittadini di mezza età, quelli che un tempo avrebbero dovuto rappresentare la spina dorsale attiva della vita pubblica. Non si tratta solo di sfiducia nei confronti dei partiti, ma di una sfiducia più ampia verso il senso stesso delle istituzioni. Per molti, la politica è diventata teatro di slogan, lotte interne, giochi di potere senza ricadute concrete sulla vita quotidiana.

Il problema è che questa sfiducia non si traduce necessariamente in ribellione o proposta alternativa. Più spesso si trasforma in apatia, in un progressivo distacco da qualsiasi forma di cittadinanza attiva. Il risultato è una società che sembra vivere in apnea, priva di quella partecipazione diffusa che è il vero motore delle democrazie. E questa apatia, questo senso di impotenza, contagia anche le nuove generazioni. I ragazzi vedono adulti che non credono più in niente, famiglie disilluse, insegnanti spesso demotivati, istituzioni che parlano una lingua sconosciuta, e si muovono nello stesso scenario senza più punti di riferimento.

Dentro questa frattura si inserisce il fenomeno della violenza giovanile. Non si tratta di bande organizzate nel senso tradizionale, né di criminalità legata al bisogno economico. Si tratta di una violenza episodica, impulsiva, priva persino di una vera logica, che esplode per uno sguardo storto o una parola mal detta. Il coltello, in questi contesti, non è solo un’arma: è il simbolo dell’assenza di alternative, della necessità di imporsi in qualche modo, di urlare la propria esistenza in una società che non ascolta più. È il frutto di un vuoto educativo e relazionale che non può essere colmato da qualche ora di lezione di educazione civica o da sporadiche campagne sui social. Qui il problema è molto più profondo: è la mancanza di spazi reali di riconoscimento, di possibilità di costruire un’identità, di confronto autentico con figure adulte credibili.

A tutto questo si aggiunge il dato drammatico dell’analfabetismo funzionale, che riguarda ormai milioni di italiani di tutte le età. Non si tratta di non saper leggere, ma di non saper capire ciò che si legge. E questo incide in modo diretto anche sulla qualità della partecipazione politica e civile. Chi non comprende un testo informativo difficilmente potrà distinguere una proposta politica reale da una promessa vuota, o capire le conseguenze di una legge sulla propria vita. In una società che si muove ormai a ritmi rapidi, fatta di titoli, notifiche e slogan, chi non possiede strumenti critici è destinato a restare ai margini. Si diventa spettatori passivi, facilmente manipolabili, vittime di narrazioni semplificate, complottismi, sfiducia totale nel sistema informativo ufficiale.

L’analfabetismo funzionale non è solo un problema scolastico, è un problema di democrazia. Chi non comprende, non partecipa. Chi non partecipa, si disaffeziona. Chi si disaffeziona, prima o poi si arrabbia. E quella rabbia, se non trova canali costruttivi, si trasforma o in indifferenza o in aggressività. L’Italia, in questo senso, è un Paese in cui la crisi culturale si traduce ogni giorno in crisi sociale. Si chiudono biblioteche, si tagliano i fondi per la cultura, si smantellano i luoghi di confronto, e poi ci si stupisce se un quindicenne prende un coltello per risolvere una lite o se un quarantenne dice di non andare a votare perché “tanto è tutto uguale”.

Il punto è che queste tre crisi — politica, educativa, relazionale — sono facce diverse di una stessa emergenza. Non si può affrontare la violenza giovanile senza affrontare contemporaneamente il degrado culturale. Non si può parlare di partecipazione politica senza ridare significato e strumenti di comprensione ai cittadini, giovani e adulti. Non si può pensare di contrastare il disagio giovanile se si continua a trasmettere un senso generale di impotenza e sfiducia nel futuro.

Servono politiche educative radicali, investimenti seri nella scuola e nella cultura, luoghi dove i giovani possano formarsi come cittadini prima ancora che come studenti o lavoratori. Ma serve anche un cambio di passo nella comunicazione politica e istituzionale: basta con linguaggi vuoti, con promesse elettorali di facciata, con la logica del consenso immediato. Serve ricostruire un patto generazionale, una fiducia reciproca tra istituzioni e cittadini. E questa fiducia non si conquista a parole, ma con azioni concrete, coerenti, visibili. Continuare a ignorare questa emergenza significa condannarsi a una società sempre più divisa tra chi partecipa e chi si rifugia nel silenzio o nella rabbia. E non possiamo più permettercelo.

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