Nel cuore del Medio Oriente, da oltre settant’anni, va in scena una tragedia tanto feroce quanto taciuta. Non è un conflitto, non è una disputa tra pari. È un progetto sistematico di cancellazione di un popolo: quello palestinese. Un popolo che resiste da generazioni a una delle forme più brutali, capillari e prolungate di colonizzazione moderna. L’opinione pubblica occidentale, troppo spesso anestetizzata da decenni di propaganda e manipolazione linguistica, si ostina a chiamarla “guerra”. Ma non c’è guerra quando da un lato c’è una delle potenze militari più avanzate del mondo, e dall’altro un popolo disarmato, confinato, affamato, bombardato, privato di ogni diritto fondamentale.
Il sionismo, nato come movimento politico per l’autodeterminazione del popolo ebraico, si è trasformato nei fatti – nelle sue manifestazioni statali e militari – in una ideologia coloniale che ha come obiettivo l’eliminazione progressiva della presenza palestinese. Non è un’accusa ideologica, è un’evidenza storica e documentata. Chiunque abbia messo piede in Cisgiordania o, un tempo, a Gaza, lo sa: la vita palestinese non è considerata degna di esistere.
In Cisgiordania, i coloni israeliani – protetti, armati e spesso incentivati dal governo – continuano ad appropriarsi di terre palestinesi. I villaggi vengono assediati, le colline svuotate, gli alberi secolari sradicati, le sorgenti d’acqua deviate. Le strade sono a doppio binario morale: una per israeliani, ampia e asfaltata, e una per palestinesi, sterrata, piena di check-point, controlli e vessazioni. Arresti arbitrari, demolizioni di case, detenzioni senza processo sono pratica quotidiana. I bambini crescono imparando che per andare a scuola possono essere fermati, perquisiti, o addirittura arrestati. Le città non comunicano più tra loro: Ramallah, Hebron, Nablus, Jenin sono isole assediate da mura, torrette e filo spinato.
A Betlemme, città sacra per tre religioni e simbolo universale di pace, la situazione è surreale. Ci sono stato due anni fa. Ricordo il Muro che taglia in due il paesaggio, una barriera di cemento armato che spezza famiglie, blocca il lavoro, isola interi quartieri. Una ferita che non è solo urbanistica, ma spirituale. Ogni volta che un palestinese tenta di attraversarlo, si sottomette all’arbitrio dell’IDF, che può concedere o negare il passaggio senza dover giustificare nulla. È questo che chiamano sicurezza?
E poi Gaza. Gaza che oggi quasi non esiste più. Ma fino a pochi mesi fa, Gaza era già un inferno. Una striscia di terra lunga 40 chilometri, chiusa a nord e a est da Israele, a sud da un Egitto complice, e a ovest dal mare sorvegliato dalla marina israeliana. Due milioni di persone imprigionate in una delle aree più densamente popolate del mondo, sotto embargo dal 2007, senza accesso regolare a elettricità, acqua potabile, cure mediche. Ogni ingresso e uscita era sottoposto a permessi difficili da ottenere, revocabili in qualsiasi momento, anche per malati gravi. E periodicamente, come in un rituale crudele, piovevano bombe. Ospedali, scuole, edifici civili. Sempre con la stessa narrazione: “difesa”, “diritto a proteggersi”. Ma da chi? Da bambini che tirano pietre? Da civili intrappolati? Da madri che cercano pane?
La verità è che Gaza è stata per anni il laboratorio della disumanizzazione. E oggi, dopo l’ennesima escalation iniziata dopo il 7 ottobre 2023, Gaza è diventata un buco nero. Un campo di sterminio a cielo aperto. Interi quartieri sono stati cancellati. Le immagini satellitari non mostrano più edifici, ma crateri. Le persone sono fuggite dove hanno potuto, spesso a piedi, senza acqua né cibo. Nessun luogo è sicuro. Nemmeno gli ospedali.
E in mezzo a tutto questo, i bambini. I bambini palestinesi. Non sono “danni collaterali”. Sono bersagli, vittime consapevoli di una strategia di terrore. Migliaia sono stati uccisi, sepolti sotto le macerie, colpiti mentre giocavano, dormivano, cercavano rifugio. Le cifre ufficiali sono scioccanti, ma la realtà è sempre peggiore dei numeri. Non ci sono abbastanza sacchi per contenerli. Non ci sono nomi per tutti. Molti vengono sepolti senza identità. Le famiglie non li riconoscono più, bruciati, dilaniati, ridotti a brandelli.
La dottoressa Tanya Haj-Hassan, pediatra giordano-americana, ha lavorato negli ospedali di Gaza. Le sue testimonianze sono agghiaccianti. Racconta di corpi di bambini piccoli come quelli dei suoi pazienti a Boston, amputati senza anestesia. Racconta di genitori che devono scegliere quale figlio provare a salvare. Racconta, soprattutto, della perdita totale di dignità: «Ogni vita umana dovrebbe avere lo stesso valore. Ma oggi, quella palestinese, non vale niente». Le sue parole, riportate in interviste e interventi pubblici, non sono retorica: sono la diagnosi clinica di un crimine contro l’umanità.
A ribadire questa verità, anche l’artista e attivista palestinese Basel Adra, che ha portato al mondo intero – insieme ai suoi co-registi – la realtà dell’apartheid israeliana con il documentario No Other Land, vincitore dell’Oscar 2025. Durante il discorso di premiazione, davanti all’élite del cinema mondiale, ha dichiarato con fermezza:
«Chiediamo al mondo di prendere misure serie per fermare l’ingiustizia e la pulizia etnica del popolo palestinese».
Il film racconta la lotta della comunità di Masafer Yatta in Cisgiordania, minacciata da demolizioni e sgomberi sistematici. È una voce dal cuore della resistenza nonviolenta, una testimonianza che smentisce l’accusa che i palestinesi “non vogliano la pace”. Vogliono viverla, la pace. Ma continuano a vedersela negata con i bulldozer, le ruspe, le armi.
Eppure, il mondo continua a giustificare, a minimizzare, a voltarsi dall’altra parte. L’attacco del 7 ottobre – tragico e doloroso – è stato subito trasformato in pretesto, in capro espiatorio per giustificare l’indicibile. Come se una violenza, per quanto grave, potesse giustificare la cancellazione totale di un intero popolo. Come se l’assassinio potesse essere lavato con il massacro. Non è così. Non è mai così. Il diritto internazionale, se ha un senso, deve valere per tutti. La memoria della Shoah, se ha un significato, dovrebbe impedirci di tollerare altri crimini. E invece, paradossalmente, viene invocata per difendere l’indifendibile. Mentre le immagini dei bambini massacrati fanno il giro del mondo e le organizzazioni umanitarie gridano alla catastrofe, la Corte Penale Internazionale ha compiuto un passo storico: nel maggio 2024, il procuratore capo Karim Khan ha chiesto mandati di arresto per Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, e per il suo ministro della Difesa Yoav Gallant, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi durante l’offensiva su Gaza. Un evento senza precedenti, che certifica sul piano legale ciò che la coscienza collettiva ha già compreso: ciò che accade ai palestinesi non è una tragedia inevitabile, è un crimine pianificato, e ha dei responsabili.
Ma criticare tutto questo non è antisemitismo. È umanità. È giustizia. È resistenza morale. L’ebraismo non è il sionismo. E sono moltissimi gli ebrei nel mondo – in Israele, negli Stati Uniti, in Europa – che si oppongono a questa politica di occupazione, di apartheid, di distruzione. Che chiedono a gran voce un cessate il fuoco, la fine dell’assedio, la libertà per i palestinesi. Tacciano questi ebrei di tradimento? Di autoodio? O forse semplicemente non li ascoltiamo, perché non rientrano nella narrativa dominante?
Il tempo della neutralità è finito. È tempo di dire le cose come stanno. In Palestina non si muore solo per le bombe. Si muore per l’ingiustizia, per l’impunità, per il silenzio. Ogni giorno che passa senza una voce, ogni parola non detta, ogni comodo “non mi schiero” è una complicità. Finché ci sarà anche un solo palestinese a vivere sotto occupazione, prigionia, assedio o esilio, nessuna persona libera può voltarsi dall’altra parte.
La Palestina non ci chiede pietà. Ci chiede giustizia.
E la giustizia comincia con la verità.
Con il coraggio di guardare in faccia l’orrore e dire, ad alta voce, che non è fatto in nostro nome.
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