sabato 22 novembre 2025

PALMOLI: QUANDO LA LIBERTÀ FA PAURA!


Negli ultimi giorni la storia della famiglia che vive nei boschi di Palmoli mi ha fatto riflettere su un fatto scomodo: in Italia la libertà piace solo quando è decorativa. Quando diventa concreta, vissuta, quotidiana… allora fa paura.


Questa famiglia ha scelto di vivere in una casa isolata, senza allacci, con pannelli solari, pozzo, animali, natura. Ha scelto di educare i figli senza affidarli al consumo compulsivo e alla scuola industriale. Ha scelto un’esistenza meno dipendente e più consapevole. Eppure basta questo per attivare la sirena del sospetto. È come se esistesse un unico modello di vita legittimo, e chi osa deviare viene immediatamente trattato come un problema da risolvere.


Il tribunale parla di criticità, e posso capire il dovere di verificare. Ma non posso accettare che la soluzione scelta sia stata la più invasiva, la più violenta, la più traumatica: togliere i bambini. Non un percorso di supporto, non una mediazione, non l’aiuto tecnico per sistemare ciò che serve. No. Via i figli. È l’equivalente istituzionale di schiacciare un moscerino con una pressa idraulica.


E allora mi chiedo: perché siamo così rapidi nel punire chi vive diversamente, mentre siamo così tolleranti verso modelli di vita che logorano davvero i bambini? Perché accettiamo senza battere ciglio che i piccoli diventino influencer in miniatura, esposti agli algoritmi, alla pressione sociale, ai like come valuta dell’autostima? Perché ci scandalizza di più un bambino che gioca nel bosco che uno che passa otto ore al giorno davanti a uno schermo?


È incredibile: consideriamo normale che un bambino cresca immerso nel digitale, nelle relazioni tossiche online, nei centri commerciali, nell’ansia da prestazione. Ma guai se un bambino cresce tra gli alberi, i silenzi, l’autonomia, il contatto con gli animali. Quello allora diventa “rischioso”. Diventa “anomalo”. Diventa “da controllare”.


La verità è che la libertà vera è troppo ingovernabile. Non la puoi catalogare, non la puoi normare, non la puoi incanalare. E quindi fa paura. Meglio avere cittadini che vivono come ce li aspettiamo, dentro il copione prestabilito, piuttosto che famiglie che scelgono il bosco invece del traffico, la lentezza invece della frenesia, l’autosufficienza invece della dipendenza dal sistema.


Criticare il provvedimento non significa negare il “ruolo” dello Stato (su questo ci sarebbe tanto da dire ma è un altro discorso). Significa rifiutare l’idea che ogni differenza sia automaticamente una minaccia. Significa chiedere equilibrio, proporzionalità, rispetto. Significa dire chiaramente che la libertà non può essere tollerata solo quando è identica alla nostra.


Perché in fondo questa vicenda ci interroga tutti: siamo ancora capaci di accettare modi di vivere che non somigliano ai nostri? O vogliamo una società in cui la libertà vale solo se non disturba nessuno, non fa pensare nessuno, non mette in discussione niente?


Se i bambini di Palmoli giocano tra gli alberi invece che davanti a un cellulare, la domanda che dovremmo farci non è “quanto è pericolosa questa scelta?”, ma “come mai siamo arrivati al punto di considerare pericoloso ciò che un tempo era normale?”.


Forse la risposta è semplice e inquietante: abbiamo così paura della libertà che preferiamo difendere le gabbie che conosciamo, invece di lasciare spazio a chi sceglie di vivere fuori dal recinto.

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