lunedì 15 giugno 2020

SCUOLA: DISUGUAGLIANZE E DIGITAL DIVIDE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS


Dopo oltre 3 mesi di chiusura delle scuole italiane si inizia a ragionare sulle disuguaglianze e l’isolamento didattico e personale dei bambini e ragazzi più vulnerabili, quei bambini che erano già a rischio di esclusione e dispersione scolastica.

Ad aprile l’Istat ha effettuato uno studio rispetto a queste tematiche che considera sia la disponibilità di computer e tablet per bambini e ragazzi tra i 6 e i 17 anni, sia gli spazi in casa che, per gli studenti in quarantena sono diventati anche i nuovi spazi dell’istruzione obbligatoria.


Secondo lo studio il 12,3% dei ragazzi compresi in questa fascia di età, non ha un computer o un tablet a casa e solo il 6,1% dei ragazzi vive in famiglie in cui, per ogni componente, è presente almeno un dispositivo. Così, soprattutto in famiglie con più figli o con un genitore che fa smart working, la didattica a distanza risulta essere quasi per nulla efficace.

Da questi dati ovviamente scaturisce una grossa differenza anche in base alle aree prese in considerazione e al livello d’istruzione delle famiglie dei ragazzi. La percentuale di studenti che non ha computer o tablet a casa, infatti, sale a circa il 20% al Sud e, al contrario, scende al 7,7% nelle famiglie in cui almeno un componente è laureato.

Queste disparità esistevano già prima, l’emergenza le ha rese visibili con più violenza. Sicuramente, gli alunni che già da prima erano più svantaggiati, a queste condizioni finiscono per esserlo ancora di più.

A tutto questo bisogna aggiungere un altro tassello secondo il quale il 41,9% dei minori vive in condizioni di sovraffollamento abitativo. Questione che influenza il rendimento dei ragazzi, sottratti all’ambiente sicuro delle scuole e momentaneamente costretti alla diversità delle loro situazioni familiari, sociali e culturali.

Immaginate i palazzoni delle periferie cittadine italiane, il Giambellino a Milano, Tor Bellamonaca a Roma, la Sanità a Napoli. Oltre alla situazione sociale si è aggiunta l’emergenza sanitaria e l’unico salvagente, che poteva essere la scuola, è scomparso all’improvviso.

Per non parlare poi dei bambini diversamente abili, che nella scuola trovavano e trovano l’unico momento di socialità altra. Bambini e famiglie si sono trovate, improvvisamente, a gestire una situazione difficile. Senza servizi, senza scuola, con una sistema di didattica a distanza non inclusivo per loro.

Inoltre, in Italia, quasi la metà degli insegnanti (circa il 48%) non aveva ricevuto alcuna formazione formale sull’uso delle nuove tecnologie per la didattica e solo poco più di 1 su 3, cioè il 36%, si sentiva particolarmente preparato nell’utilizzarle. Quindi la maggior parte di loro si è dovuta arrangiare da sè, poichè il Miur non ha dato indicazioni chiare.

Allora ognuno ha usato quello che poteva. Piattaforme come Zoom, Skype, WhatsApp, Face Time, con la conseguente problematica della privacy, sono state prese d’assalto.

Fare lezione attraverso dispositivi elettronici è difficile sia per gli studenti sia per gli insegnanti. La scuola italiana non era pronta, diciamoci la verità.

Alcuni insegnanti sono stati bravi nel riconvertirsi e per portare la didattica a tutti i loro studenti, altri ci hanno provato ma senza riuscirci del tutto, mentre ce ne sono alcuni che non ci hanno neanche provato.

Teniamo anche presente che la didattica a distanza, soprattutto per i più piccoli presuppone la presenza di un adulto. Spesso i genitori non sono in grado di aiutare i propri figli e non possono sostituirsi agli stessi insegnanti.

Quindi è successo che nelle famiglie in cui c’erano genitori disposti ad aiutare i loro figli, la didattica a distanza ha “funzionato”, mentre in altre no, acuendo ancora di più le disuguaglianze.

Questo vuol dire che quando si parla di qualità, si parla anche e soprattutto di relazione tra insegnanti e studenti; relazione che è stata trasformata, dal covid, in un rapporto mediato.

Da qui scaturisce una considerazione: un legame affettivo/relazionale è necessario per qualsiasi tipo di intervento pedagogico e avviene senza intermediari. In classe è possibile seguire tutti i ragazzi, è possibile recuperarli, tornare indietro, motivarli. Molti alunni, ad esempio, la prima cosa che mi dicono, quando mi collego è: “Maestro mi manca la scuola” oppure ” mi manchi” semplicemente. Questo perchè, per molti, la scuola è anche un luogo di “evasione” dalle loro realtà difficili.

Il problema grosso del post covid sarà quello di riagganciare affettivamente e relazionalmente alcuni studenti. Tutto questo creerà ancora di più disuguaglianze tra coloro che ce l’hanno fatta e coloro che, se dovessero tornare a scuola, lo faranno con grandissime lacune relazionali e affettive oltre a quelle didattiche.

Quindi uno dei rischi, per i bambini e ragazzi che non vengono raggiunti dalla didattica a distanza, non è solo la perdita di apprendimento ma anche di motivazione con un concreto rischio di abbandono scolastico .

Questa crisi ha tirato fuori una serie di problematiche sia del nostro sistema sanitario che del nostro sistema scolastico.

La pandemia deve aiutarci soprattutto a ragionare sulla nostra limitatezza e sull’importanza delle relazioni umane vissute in modo autentico all’interno della scuola e non solo. Ragionare e sottolineare la valenza di genere, di classe e razziale della pandemia, che ha portato e continuerà a portare in luce la polarizzazione sociale spesso abilmente occultata, ma sempre presente, nel nostro paese.

La scuola assume un ruolo importantissimo nel colmare la disuguaglianza, ma da sola non basta. È necessario affiancare ad essa anche delle politiche di welfare, di reddito o lavoro e diritti economici, sociali, politici esigibili da tutti.

Riflettiamo anche su un altro aspetto di questa ondata pandemica ed è quella della produzione di nuove disparità sociali che avranno un impatto diretto sulla tenuta dei livelli di scolarizzazione. Finita la pandemia, ci saranno infatti molte persone che non potranno permettersi di continuare la loro istruzione secondaria e terziaria.

Pensiamo, ad esempio, agli universitari che si pagavano le tasse attraverso lavori legati al turismo o alla ristorazione; oppure pensiamo alle famiglie che non avranno più risorse disponibili per sostenere questo sforzo economico.

Cosa succederà? Che posto occuperanno queste persone e che impatto sociale avrà tutto questo sull’economia di alcune città universitarie, ad esempio?

La scuola italiana, negli ultimi 20 anni è stata bistrattata e praticamente svuotata e gli investimenti ad essa destinati sono impietosi.

Nel 2018 l’Italia ha speso nella scuola il 4% del suo PIL; peggio, in Europa, hanno fatto solo Romania, Grecia, Irlanda e Bulgaria.

Inoltre dal 2009, i fondi destinati alla scuola sono stati tagliati di circa tre miliardi. Un Paese che investe così poco nell’istruzione pubblica non fa altro che aumentare le disuguaglianze, tra chi ha e chi non ha.

Qualsiasi tentativo di ricostruzione e rielaborazione del sistema scolastico, come quelli che timidamente si cercano di avviare in questo periodo per pensare a un rientro in classe a settembre, deve necessariamente partire da tutte queste considerazioni.

Ma investire solo soldi non basta, è necessario potenziare gli organici, formare classi più piccole, investire davvero in tecnologia.

Ciò che è doveroso, infatti, è far sì che la scuola torni a essere un luogo di formazione/critica e non di competizione. Un luogo che possa formare futuri cittadini consapevoli e non solo dei futuri lavoratori.

Un luogo che mette tutti nelle stesse condizioni, non solo sulla carta.

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